In un’intervista uscita all’inizio dell’estate su Chickfactor, Jen Sbragia aveva ammesso: “a quanto pare, le cotte che non funzionano sono il mio argomento preferito quando scrivo canzoni”. Ascoltando The Bed I Made, l’album che segna il ritorno delle The Softies dopo quasi 25 anni, e ripensando al percorso della influente band statunitense, sono portato a credere che gli innamoramenti mancati, delusi e sbagliati, rappresentino qualcosa di ancora più importante e significativo, qualcosa a cui aggrapparsi nella vita, e non soltanto momenti di volubile sentimentalismo o espedienti poetici.
Le chitarre a lume di candela e le delicate armonie vocali di Rose Melberg e di Jen Sbragia sono capaci di fare molto di più che scaldare il cuore: sono una presa di posizione. C’è un implicito senso di qualcosa che voglio definire resistenza umana nelle Softies che oggi riescono ancora a cantare di “watching roses grow and bloom”, o di quelle strade vuote di notte che ci accompagnano a casa dopo la fine di un amore, o della vertigine di insicurezza che ci attanaglia quando realizziamo quanto tempo è passato e che forse non lo abbiamo vissuto a pieno.
Tenere strette tutte queste sensazioni, così fragili, effimere, e secondo qualcuno deboli e sbagliate, è una maniera per reagire a un mondo che dall’amore spreme solo marketing, non sa che farsene del resto e lo giudica naïf, superfluo, inservibile nella presunta efficienza del presente veloce: “I'm a funny old house / With problems to spare / But I'm not going anywhere”.
Quello che raccontano le Softies è un tempo diverso, un tempo per riflettere sul luogo in cui si ha bisogno di stare: “We’re sleeping in the bed I made / I chose where I want to be”. Un tempo per le certezze da ricercare con cura, momenti da attendere e cogliere con attenzione. Una strofa come “The night they towed the van / You offered me a hand / I've been sleeping great since then” è una piccola short story di tre righe che racconta già un’intera vita.
D’altra parte, il mondo poetico delle Softies respira, vive e quindi conosce anche il dolore. Arrivano anche le stagioni in cui si affievolisce la luce e “Every song is just a sigh / A little moment going by”. Le stagioni in cui ci si allontana, ci si perde e “anyone can become just someone”. Le stagioni in cui si smarrisce il senso: “Days of no us / Become time with just me / Now I’m drifting at sea / Without you”. Ma anche quello è un momento del cuore da custodire e comprendere: “Maybe there's a different life / Waiting for me / Where you're just a hazy memory”.
Nel semplice respiro e nell’anima delle canzoni di The Bed I Made ritrovo il ricordo un me stesso che avrebbe potuto pronunciare, con toni altrettanto drastici e irrevocabili, “Plug your headphones / Straight into my heart” cercando di far innamorare qualcuno con un nastrone. Oggi forse fa tenerezza, eppure - sembrano dirci le Softies - è proprio quella che ci manca.
Le chitarre a lume di candela e le delicate armonie vocali di Rose Melberg e di Jen Sbragia sono capaci di fare molto di più che scaldare il cuore: sono una presa di posizione. C’è un implicito senso di qualcosa che voglio definire resistenza umana nelle Softies che oggi riescono ancora a cantare di “watching roses grow and bloom”, o di quelle strade vuote di notte che ci accompagnano a casa dopo la fine di un amore, o della vertigine di insicurezza che ci attanaglia quando realizziamo quanto tempo è passato e che forse non lo abbiamo vissuto a pieno.
Tenere strette tutte queste sensazioni, così fragili, effimere, e secondo qualcuno deboli e sbagliate, è una maniera per reagire a un mondo che dall’amore spreme solo marketing, non sa che farsene del resto e lo giudica naïf, superfluo, inservibile nella presunta efficienza del presente veloce: “I'm a funny old house / With problems to spare / But I'm not going anywhere”.
Quello che raccontano le Softies è un tempo diverso, un tempo per riflettere sul luogo in cui si ha bisogno di stare: “We’re sleeping in the bed I made / I chose where I want to be”. Un tempo per le certezze da ricercare con cura, momenti da attendere e cogliere con attenzione. Una strofa come “The night they towed the van / You offered me a hand / I've been sleeping great since then” è una piccola short story di tre righe che racconta già un’intera vita.
D’altra parte, il mondo poetico delle Softies respira, vive e quindi conosce anche il dolore. Arrivano anche le stagioni in cui si affievolisce la luce e “Every song is just a sigh / A little moment going by”. Le stagioni in cui ci si allontana, ci si perde e “anyone can become just someone”. Le stagioni in cui si smarrisce il senso: “Days of no us / Become time with just me / Now I’m drifting at sea / Without you”. Ma anche quello è un momento del cuore da custodire e comprendere: “Maybe there's a different life / Waiting for me / Where you're just a hazy memory”.
Nel semplice respiro e nell’anima delle canzoni di The Bed I Made ritrovo il ricordo un me stesso che avrebbe potuto pronunciare, con toni altrettanto drastici e irrevocabili, “Plug your headphones / Straight into my heart” cercando di far innamorare qualcuno con un nastrone. Oggi forse fa tenerezza, eppure - sembrano dirci le Softies - è proprio quella che ci manca.
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