Domani mattina, fuori di qui, i Crocodiles torneranno a essere un nome di cui si ricorderanno solo certi appassionati e scrupolosi bibliografi di una storia dell’indie rock Anni Dieci. Domani mattina, fuori di qui, la musica del 2024 tornerà a essere quella che dura quindici secondi su Instagram e che un algoritmo saprà rendere virale. Domani mattina, fuori di qui, il mondo tornerà a essere quello che la nostra musica non ha reso migliore, e magari sarà anche per colpa nostra, più vecchi e disillusi, con un amaro in bocca che non va più via.
Ma per questa sera, per un attimo, lasciami precisamente qui, sotto a questo palco dove sono già stato mille volte, con gli amplificatori in faccia e le chitarre che crepitano ed esplodono, e fammi credere che questo sia tutto quello che conta. Qualcuno dal fondo della stanza lancia un bicchiere vuoto e colpisce noi in prima fila.
Il concerto dei Crocodiles è lo stesso della prima volta che hai visto i Crocodiles in concerto, forse ancora più diretto ed essenziale, asciugando ancora di più i Jesus and Mary Chain verso l’origine Lou Reed, e spaccando corde come adolescenti. Per un attimo ho nostalgia di quella stagione in cui band come i Crystal Stilts o le Dum Dum Girls ti riempivano il cuore e le parole, ma dura poco perché il volume, qui e ora, è quello giusto. Brandon Welchez fa le linguacce piegandosi davanti al microfono, salta e non risparmia la voce che si sente a malapena sopra i feedback, dimostrando una volta in più, se qualcuno ne avesse bisogno, che il rock’n’roll non è soltanto un paio di rayban scuri, una giacca di pelle e riuscire a entrare ancora in un paio di jeans taglia 46.
Scaletta ad alta intensità che può spaziare in una discografia ormai corposa, con Upside Down in Heaven e I’ve Become What I Fear Most le mie personali highlights della serata, tralasciando le trascinanti cover di Cum On Feel The Noize e Jet Boy Jet Girl in chiusura, party classics. Le ragazze con il trucco nero intorno agli occhi cantano e alzano le braccia al cielo, balliamo e siamo sempre nel nostro Max’s Kansas City e nel nostro CBGB. E anche se sappiamo che i Crocodiles non cambieranno la storia della musica, questo momento che non dura niente è tutto quello che ci serve per sopravvivere ancora, domani mattina, fuori di qui.
Il concerto dei Crocodiles è lo stesso della prima volta che hai visto i Crocodiles in concerto, forse ancora più diretto ed essenziale, asciugando ancora di più i Jesus and Mary Chain verso l’origine Lou Reed, e spaccando corde come adolescenti. Per un attimo ho nostalgia di quella stagione in cui band come i Crystal Stilts o le Dum Dum Girls ti riempivano il cuore e le parole, ma dura poco perché il volume, qui e ora, è quello giusto. Brandon Welchez fa le linguacce piegandosi davanti al microfono, salta e non risparmia la voce che si sente a malapena sopra i feedback, dimostrando una volta in più, se qualcuno ne avesse bisogno, che il rock’n’roll non è soltanto un paio di rayban scuri, una giacca di pelle e riuscire a entrare ancora in un paio di jeans taglia 46.
Scaletta ad alta intensità che può spaziare in una discografia ormai corposa, con Upside Down in Heaven e I’ve Become What I Fear Most le mie personali highlights della serata, tralasciando le trascinanti cover di Cum On Feel The Noize e Jet Boy Jet Girl in chiusura, party classics. Le ragazze con il trucco nero intorno agli occhi cantano e alzano le braccia al cielo, balliamo e siamo sempre nel nostro Max’s Kansas City e nel nostro CBGB. E anche se sappiamo che i Crocodiles non cambieranno la storia della musica, questo momento che non dura niente è tutto quello che ci serve per sopravvivere ancora, domani mattina, fuori di qui.
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