Per un’altra di quelle irragionevoli gare contro me stesso che finiscono sempre per impantanarmi sul fondo di mille sciocchezze, mi ero imposto – non so più perché – di non scrivere nulla a proposito dell’ultimo disco degli A Minor Place fino a quando non avessi finito di leggere i due libri che, a detta della band, lo hanno ispirato. Poi i libri li avevo letti davvero ma, nel frattempo, come si suol dire, la vita si era messa di mezzo. Erano passati i mesi, e ogni volta che riascoltavo Richard Barry, Livia and Roy, magari da solo in macchina in mezzo alla pianura vuota o mentre cucinavo la sera tardi, avevo sempre questa vaga sensazione di non avere restituito qualcosa o, ancora peggio, di averlo perduto. I dischi, anche quelli che ami, a volte ti fanno degli effetti davvero stranissimi.
La malinconia è come Roy nelle storie di Barry Gifford: è sempre un pomeriggio d’inverno in città , mentre la neve si sta sciogliendo, fa buio presto e qualcuno ti racconta storie fantastiche capitate ad altri, e tu torni a casa da solo e guardare la tv. Gli A Minor Place sanno catturare nella loro musica la distanza tra quello che non dici e quello che non succede, una musica che resta sospesa sopra quei pomeriggi e ti conforta. Gli A Minor Place sanno come riempire la piccola vita di tutti i giorni di immaginazione e bellezza, e non è un caso che dentro questo LP ci sia un libro di disegni da colorare e allegata ci sia anche una scatola di pastelli. Gli A Minor Place sanno da sempre qual è la risposta alla domanda “Who could ever like / how things have changed?”, e la mettono in forma di canzoni, questa volta dai contorni un po’ più morbidi che in passato, ma sempre inequivocabilmente A Minor Place. Un po’ la Scozia dei Pastels e dei Belle and Sebastian, e un po’ l’Australia dei Go-Betweens, e poi via, fino a San Francisco.
C’è una bambina che non vuole dormire e insiste per stare alzata ad ascoltare i grandi, e i grandi allora la fanno correre dappertutto, sulla luna e sopra l’acqua, inseguendo tigri e inseguendo l’estate. E lei alla fine non ne può più, “You’re good at details, don’t say no / But you miss the big picture”, e chiede soltanto di uscire, andarsene da tutte le canzoni. In cambio abbiamo questo album. La malinconia resta sull’uscio, ad aspettarci, tra un arpeggio sospeso, Magnetic Fields e Pernice Brothers, Lucksmiths oppure Felt, ma sempre in attesa di quell’inevitabile “Still she regrets what she lost and sighs / Life’s so unfair”. Forse sarebbe meglio imparare davvero dalla pesca alla trota in America: andare a comprarsi un ruscello, un prato, una cascata all'emporio, immergere la mano nell’acqua limpida e sentirla fresca, godersi questa luce che cade dall'alto, calda come la musica della band di Teramo. "And life such an eternal bliss / And secret stories / And friends forever / And no more no, or nope, or never".

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